La dinamica del rapporto tra profit e no profit è spesso rappresentata come un vero e proprio scontro, una dicotomia secca all’interno della quale “prendere posizione”.
Digitale, bianco/ nero, un braccio di ferro. Fuori dalle rappresentazioni stereotipate, la realtà è molto più fluida e analogica: ci sono realtà no profit pensate e gestite in modo imprenditoriale, anche molto più imprenditoriale di certe aziende; ci sono singoli artigiani, liberi professionisti, pmi, aziende con uno stile di conduzione molto più “sociale” di certe realtà del Terzo Settore.

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La realtà è molto più complessa della sua rappresentazione. Così ti capita di incontrare imprenditori che, ad esempio, producono saldatrici di precisione da 20 anni e ti raccontano che, nel loro capannone della zona industriale del paesino XYZ, da sempre c’è il part time perché così “le donne sono più contente e possono badare ai figli, nel pomeriggio (cit.)”. Azienda B2B, circa l’80% di export, solidità finanziaria e mai cassa integrazione o licenziamenti: “…quando assumo, ho la responsabilità del lavoratore ma anche della sua famiglia. Preferisco partire gradualmente, per poi confermare la persona e formarla all’interno dell’azienda”. In Procter & Gamble direbbero, in stile patinato, “We believe in promotion from within”, in quella zona industriale apostrofano “è solo buon senso”.

Oltre che per i collaboratori, la cura nelle relazioni e nei rapporti è massima anche verso i fornitori e ovviamente verso i clienti. L’aspetto che più mi ha impressionato, tuttavia, è il basso profilo di queste realtà aziendali nostrane, che nessuno conosce perché non fanno B2C ma dal punto di vista dei “fondamentali” sono assolutamente sane e prospere. Sono forti del loro prodotto e si sono strutturate per crescere all’estero, se qui non ce n’è più. Sono imprese cresciute gradualmente, con capitale proprio, hanno fatto un passo alla volta senza impennate di fatturati che possono compromettere la solidità e la coesione interna. Sono imprenditori che si sanno accontentare sui profitti, perché “in questo momento, per l’Italia, dobbiamo preservare i posti di lavoro, e io sarei disposto ad assumere più persone a part-time se avessi reali vantaggi fiscali. Certo lavorano meno, ma lavorano tutti e portano a casa un reddito”.

Ho la netta impressione che, non a causa ma solo grazie a questi anni di trasformazione socio-economica, ci stiamo rendendo conto che non è importante solo il COSA fai, produci, vendi. Ma COME arrivi sul mercato, con che stile, con che atteggiamento e con che visione. Allora può essere più “sociale” un imprenditore di saldatrici che crea posti di lavoro che la Cooperativa sociale di tipo B che ha perso, col tempo, la sua vocazione sociale e, di fatto, fa business con un inquadramento fiscale e un peso normativo totalmente diverso rispetto alla srl, magari anche attingendo a finanziamenti pubblici grazie alla sponda politica. Non è il cosa, ma è il come.