“Il problema è: non cosa possiamo fare noi con gli strumenti tecnici che abbiamo ideato, ma che cosa la tecnica può fare di noi” – Umberto Galimberti

tecnologia-cattivaLa parola tecnologia è una parola antica e misteriosa.
Antica perché deriva da due parole greche: téchne, che potrebbe essere tradotta come capacità d’invenzione, un certo saper fare che coinvolge intelligenza e manualità, e logos che significa linguaggio, discorso, ma anche conoscenza.
Misteriosa perché per un lungo periodo è sparita, sotterrata sotto il disprezzo di certi intellettuali che la consideravano poca cosa rispetto al “mestiere del pensare”, ma la tecnologia, intesa come soluzione tecnica intelligente, è sempre stata presente attorno all’uomo. La semplice punta di una lancia di cui racconto qui è tecnologia, cioè l’invenzione di uno strumento.
Gli strumenti sono invenzioni dell’uomo per risolvere, facilitare o compiere meglio una certa azione. Di per sé non sono buoni o cattivi, a parte le armi che necessitano di un discorso diverso.

La tecnologia non ha etica, ma possiede una sua logica impositiva, tende a voler essere riutilizzata, esclusiva e a ripetere sè stessa. Se fate poca fatica con uno strumento tenderete a usarlo tutte le volte di cui ne avrete bisogno. Discorso corretto per arare un campo, ma se dovete fare una banale moltiplicazione e usate la calcolatrice, in un certo senso, la tecnologia si è imposta su di voi.
Usando gli strumenti senza consapevolezza spesso capita che siano gli strumenti a usare noi, cioè trascendono i loro limiti.
Nel momento in cui diventano “estensioni” sembra diventino anche necessari, ne inizia così un uso automatico e privo di qualsiasi riflessione.

In natura esiste da molto questo tipo di automatismo necessario per risparmiare energia fisica e piscologica e alcuni processi devono e possono procedere senza consapevolezza dell’atto in sé come il battito cardiaco, il movimento delle palpebre e molto altro, ma quando l’automatismo riguarda la nostra modalità di conoscenza e i nostri strumenti intellettuali la questione è molto diversa. Leggere e guardare Facebook con la stessa passività con cui guardiamo la televisione, compresa la stessa azione di cliccare i tasti “Mi piace” e “Condividi”, è diventato un automatismo intellettuale.
Lo strumento, in quel momento, sta usando noi.
In un certo senso punta al suo scopo naturale che è la condivisione massima di sé stesso non più la diffusione d’informazioni e conoscenza tra esseri umani. Lo scopo per il quale è stato “costruito” passa in secondo piano.
L’altro giorno ho guardato con attenzione, come non mi capitava da tempo in questa logica da assuefazione da informazione, una bell’intervista a Igor Sibaldi. Nell’intervista, che potete vedere, ad un certo punto parla di promiscuità.
[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=old8sgG6dQs[/youtube]
Promiscuità significa:

1. Comprensenza nella medesima situazione di elementi o caratteri differenti fra loro.
2. Mancanza d’intimità o riservatezza dovuta alla convivenza o alla compresenza di troppe persone in uno spazio angusto.

La promiscuità ha due caratteristiche fondamentali: da una parte la diversità presente nello stesso luogo e stesso momento; una diversità non scelta e non simile. Dall’altra la mancanza d’intimità cioè la non possibilità di poter tenere dentro di sé il proprio mondo emotivo e psicologico.

Quando Sibaldi nell’intervista parla di promiscuità lo esprime con l’esempio della peste nel Medioevo. La malattia aveva un contagio così veloce e potente perché la promiscuità fisica lo permetteva. Oggi, la continua connessione di “tutti a tutti”, è una sorta di promiscuità psichica. Apro Facebook – uno strumento tra tanti – e mi arriva addosso un’enorme quantità di diversità e d’intimità. Richiesta? Voluta? Non sempre. Intelligente? Riflessiva? Dipende, da come imposto e uso lo strumento.
Qui entra in gioco la possibilità di usare lo strumento e quindi scegliere di usarlo per aumentare la connessione tra le persone, per poterne ricavare un miglioramento personale che solitamente rimanda sempre all’imparare. Da questo punto di vista lo strumento “web” è potente e mette in campo un’enorme quantità di conoscenza; dall’altro lato però apre alla promiscuità psichica che rischia di farci arrivare addosso una quantità sconcertante di cattivi pensieri, ragionamenti smozzicati e soprattutto bugie.
Un altro tipo di contagio.
Utilizzare gli strumenti ci permette di liberare energie e tempo per poter lavorare meglio, approfondire, compiere meno fatica, ma tutto questo funziona solo se sappiamo come si compie quell’azione anche senza lo strumento. Torniamo alla famosa questione della calcolatrice. A scuola tutti ci dicevano di non usare la calcolatrice perché avremmo disimparato a fare di conto. Anche questo è un approccio sbagliato alla tecnologia come insieme di strumenti e conoscenza. Possiamo usare la calcolatrice solo se sappiamo come si  risolve, per esempio la moltiplicazione di cui parlavamo prima, così, nel momento in cui non avremo lo strumento risolveremo con carta e penna. Si tratta di conoscere il processo e non SOLO di ottenere il risultato.
Lo strumento “ragiona” con una logica semplice del “faccio A ottengo B”, ma questa logica  non funziona nelle relazioni con le persone, le quali non si costruiscono con strumenti, e nemmeno per la conoscenza, la quale è una mappa più complessa della “semplice” risposta di Google.
Google aiuta, ma non è intelligente. Per il momento.