Per lavoro mi occupo di marketing e per passione, in particolare, di marketing per il sociale. Senza disegnare per partito preso una distinzione netta tra profit e no profit, tra impresa e cosiddetto “mondo del sociale”, cerco di partire dall’oggetto, dall’offerta, dal bisogno da cercare di soddisfare con l’esatto mix prodotto/servizio. Prima la sostanza, poi la forma. Ho scoperto questa passione grazie a un’associazione studentesca, ho sperimentato con uno stage una cooperativa sociale di tipo B, ho conosciuto persone eccellenti dal mondo delle fondazioni e più in generale del cosiddetto privato sociale. Sono passato da una visione romantica a una più concreta.
Siamo sicuri che la forma giuridica di un’organizzazione, da sola, basti ad assicurare l’eticità, la correttezza e la coerenza tra beni/ servizi prodotti e fiscalità applicata? Più semplicemente: quanti si dichiarano “sociali” per godere di vantaggi fiscali e, grattando un po’ sotto la superficie, fanno più business di un’azienda? Quante aziende, dall’altro lato, soprattutto se legate naturalmente e da lunga data a un territorio preferiscono sputare sangue (leggi: la proprietà apre il portafoglio e ricapitalizza) invece che delocalizzare o spostare la produzione, e perdono business pur di restare coerenti con i loro valori? Chi tra i 2 può dirsi allora più “sociale”?
In questi tempi di trasformazione e selezione continua sul mercato, il tema non va banalizzato. Non è mai bianco o nero. Rilevo semplicemente come molte associazioni nascano deliberatamente con l’intento – complice la legislazione che lo permette – di pagare meno i collaboratori e di godere di vantaggi fiscali importanti rispetto all’impresa. Esempio: proprio le cooperative sociali di tipo B, per una legge regionale, possono godere del cosiddetto “affidamento diretto” da parte del pubblico. Si bypassa la gara d’appalto e si affida direttamente alla cooperativa la commessa.
Ora, nel caso di una vera cooperativa sociale di tipo B il meccanismo è corretto e lo condivido. Stride invece quando scopri che, forse 10 anni fa la cooperativa faceva reinserimento lavorativo ma oggi è impresa a tutti gli effetti… ma i vantaggi rimangono. Chi può dirsi più “sociale”?
Concludendo, ritengo che non ci si possa più permettere, sotto il comodo vestito del sociale (oggi tutto è in qualche modo sociale), di perdere l’elemento della trasparenza, della correttezza, della concorrenza come leva per tirar fuori il meglio dalle persone e dalle organizzazioni; della meritocrazia come filtro per selezionare gli attori che meritano di crescere sul mercato e sanzionare – a parità di regole certe – quelli che sono meno efficaci ed efficienti.