Negli ultimi anni, in particolare in occasione degli scandali legati a MPS e BNL, le Fondazioni bancarie si sono trovate nell’occhio del ciclone, senza che ci fosse una corretta informazione in merito alle loro attività e ai loro scopi sociali. Più che del loro stretto rapporto con gli Istituiti di Credito, di cui sono emanazione, si è evidenziata la necessità di comunicare in modo trasparente le singole iniziative di cui sono sostenitori. In poche parole, un tema di posizionamento e comunicazione.
Ne parliamo con Dario Bolis, direttore comunicazione e relazioni esterne Fondazione Cariplo
4Marketing e noi collaboratori siamo abituati a parlare di e con aziende, qui ci troviamo in una situazione nuova, forse diversa: cosa significa occuparsi di comunicazione per una Fondazione e come si gestisce un processo di cambiamento di immagine?
Diciamo subito che la Fondazione Cariplo sei anni fa ha deciso di riposizionarsi, quasi un cambio di pelle. Facile da dire, meno a farsi. Una Fondazione, così come un’istituzione, si presenta il più delle volte con un aspetto paludato, con dei meccanismi lenti e tendenzialmente statici. Insomma una realtà vecchia. Ben sapendo che tradizione e lentezza sono stati recentemente riscoperti come valori, non possiamo però farne elementi esclusivi di posizionamento d’immagine.
Una Fondazione non è come un’azienda, ha i suoi tempi e le sue dinamiche per questo ci vuole molto più tempo per organizzare e mettere in atto un cambiamento. La Fondazione Cariplo è partita in questa avventura sei anni fa, ma solo negli ultimi 2/3 anni abbiamo potuto imprimere una forte accelerazione al processo.
Possiamo dire che è una ventata di cambiamento di fase ascendente, dalla base ai vertici?
La Fondazione ha la fortuna di avere una Direzione, in particolare nella persona dell’Avv. Giuseppe Guzzetti, presidente dal 1997, che si pone molto in ascolto, che si fida dei collaboratori e sa riconoscere le buone idee. Il cambiamento è venuto dalla base nel senso del mondo fuori dalla Fondazione, dai nostri interlocutori, da me che proprio per il mio ruolo, devo saper cogliere e interpretare i segnali. Sono io che devo andare a spiegare alla Direzione perché e cosa si deve cambiare: il problema è in che tempi farlo. Comunicare un cambiamento presuppone che il cambiamento stesso sia effettivamente avvenuto al nostro interno, dunque la Fondazione doveva prima cambiare per poi poterlo comunicare.
E come si cambia all’interno?
Si cambia avviando un processo che prevede la condivisione degli obiettivi da parte di tutti i dipendenti, per arrivare ai vertici che devono essere personalmente coinvolti nel percorso. Non si parla di giovani e non si parla di anziani, si parla di competenze e di attitudini: esempio calzante, ben lo sappiamo, quello dei Social. Era impensabile per la Fondazione approdare ai Social senza aver prima formato persone, in particolare l’ufficio comunicazione, che potessero occuparsene con competenza.
Siete partiti dalla competenza, quale poi il secondo step?
Direi l’individuazione puntuale delle azioni necessarie a raggiungere gli obiettivi di cambiamento. Un caso come esempio: la volontà di sottolineare la trasparenza delle scelte della Fondazione e il suo grado di penetrazione. Siamo partiti da un’indagine di notorietà e di customer satisfaction per scoprire che solo parzialmente eravamo conosciuti anche dai nostri interlocutori attivi. Era necessaria a questo punto una mappatura dei nostri potenziali contatti: principalmente si rivolgono alla Fondazione organizzazioni no profit che, partecipando ai nostri bandi, ottengono sostegni economici ai loro progetti o attività, per essere trasparenti era dunque necessario accertarsi di conoscere e di essere conosciuti da tutti. Questo ha significato dedicare tre anni a implementare il nostro database di contatti, che da 1500 anagrafiche è passato a 4500 circa, corrispondenti alla associazioni operanti sul territorio lombardo, e successivamente studiare una comunicazione adeguata a farci conoscere da tutte. Siamo così passati da parlare, in un anno, con 100/200 persone a 10mila!
Se dovessi indicarmi l’elemento che ha caratterizzato questa vostra prima fase di cambiamento, cosa mi diresti?
Il metodo! In questo ha giocato un ruolo fondamentale l’esperienza portata dal nostro nuovo Segretario Generale, arrivato nel 2006, il Dott. Pier Mario Vello, che provenendo da un settore profit, in particolare la grande distribuzione, ci ha aiutato ad accogliere regole e processi di lavoro innovativi per la nostra realtà.
Certo però alla base c’è un brand prestigioso, con i suoi pro e i suoi contro…
Indubbiamente, il brand è fortissimo, con alcuni punti critici come: il rimando alla banca, la connotazione milanocentrica, la lontananza dalle giovani generazioni, la nebulosità degli scopi e delle modalità di erogazione della Fondazione stessa. Individuate queste criticità, siamo partiti per smontarle e per consolidare la nostra immagine e sottolineare la vocazione filantropica, con tutte le precauzioni del caso. Dovevamo evitare di perdere tutti i benefici d’immagini acquisiti negli anni, rinfrescando e aggiornando il nostro percepito per essere un po’ più user friendly.
Quindi dopo i primi tre anni di riflessione interna, siete passati all’esterno?
Si, il problema è che nel frattempo è iniziata la crisi, che per noi ha significato ridurre il budget della comunicazione e ridurre anche la comunicazione in se perché aumentando i problemi sociali, rischiavamo un aumento esponenziale delle richieste di erogazione, mentre la Fondazione ha sempre preferito evitare i finanziamenti a pioggia. Il 2010 e il 2011 hanno visto il consolidamento delle nostre azioni, in particolare attraverso una comunicazione istituzionale della Fondazione, ma qui abbiamo capito che la Fondazione doveva avere una presenza anche nei progetti che andava a sostenere e nella loro comunicazione. Il problema era diventato far arrivare il messaggio di una istituzione di secondo livello, che non agisce quindi direttamente nei progetti, al pubblico, facendone conoscere così la mission: la nostra strada erano proprio quegli interlocutori che dal 2008 avevamo censito in maniera certosina. Oggi la Fondazione incontra tutte le singole realtà che sostiene e fornisce loro il kit di comunicazione, un esercito di 1000 organizzazioni (circa) che annualmente comunica, attraverso le loro attività, l’attività della Fondazione. Un vero e proprio lavoro di catena. Il bilancio di questi sei anni è positivo, i dati che possiamo portare a testimonianza parlano di 15mila articoli di rassegna stampa con una percentuale del 70% che cita le attività culturali e filantropiche della Fondazione, spostandosi così finalmente dal socio bancario, da cui naturalmente viene tratta la liquidità, ma che è altra cosa dalla Fondazione e dai suoi scopi. Anche il web ci ha aiutato in questo, il restyling del sito ci ha permesso di essere trasparenti e di comunicare tutte le aree in cui andiamo ad intervenire. Così come i Social che abbiamo gestito a cerchi concentrici, partendo dai nostri interlocutori, le nostre relazioni istituzionali, per passare ai volontari che collaborano con le no profit e, attraverso la Fondazione, possono scoprire possibilità di finanziamento, per esempio per le giovani startup. Infine, proprio grazie al rapporto consolidato con i nostri interlocutori, possiamo comunicare, arrivando ad un pubblico popolare, i risultati delle azioni sostenute dalla Fondazione.
La comunicazione spesso viene sottovalutata all’interno di un’azienda, ritenendo che chiunque se ne possa occupare, mentre è un mestiere che presuppone delle competenze specifiche, che ha delle regole e i cui effetti, se non condotta professionalmente, possono risultare non solo nulli ma addirittura negativi. Ricordiamocelo ogni volta che pianifichiamo un’attività di comunicazione. Inoltre, la comunicazione ha delle implicazioni fortemente strategiche che richiedono un allineamento tra azioni e comunicazione al fine di evitare auto-goal.