Avendo scelto con serenità di mettere radici sul territorio nordestino, è con questa realtà socio-economica che mi piace confrontarmi quotidianamente, sul piano personale e professionale.
Da ormai 6 anni lavoro nel marketing di imprese a conduzione familiare, spesso padronale, con tutti i pro e i contro del caso. Parallelamente, negli ultimi 2-3 anni, mi è stato impossibile non registrare l’irresistibile ascesa del fantastico mondo delle start-up: sono nati come funghi percorsi di incubazione, sostegno, consulenza, accompagnamento e chi più ne ha più ne metta per far germogliare come gelsomini le più rivoluzionarie idee di business. E’ facile e tutti lo possono fare: questo è il messaggio. E’ un gioco e soprattutto se parliamo di digitale allora se non lo fai sei proprio out, sei vecchio. Non sei hipster.
A questo punto, scherzi a parte, diventa necessario riflettere sulle differenze tra la figura dell’imprenditore (in generale, e del nord-est in particolare) e quella dello startupper (californiano, e italiano in particolare).
Premetto e prometto che da questo punti in avanti non sarò politically correct.
A me pare che abbiamo un disperato bisogno di incentivare la nascita di nuove attività che rispondano ai bisogni del mercato e alimentino l’economia; e di nuove modalità di fare impresa in uno scenario radicalmente mutato rispetto al passato. Date queste necessità, l’uso del termine start-up mi pare serva più ad attirare l’attenzione mediatica che a rispondere a queste esigenze. Insomma, tu vo’ fa l’americano, solo che vivi a Campagna Lupia.
Non sono assolutamente contro chi ce la mette tutta con una propria attività di business legata al web, ai social, al digitale, alla nuova app per risolvere un bisogno emergente. Chi rischia va rispettato a prescindere da come andrà il progetto e dal settore in cui il progetto si sviluppo. Uno che ci prova è già un esempio in quanto tale, anche perché se non sbagliamo non possiamo imparare ed evolvere come imprenditori e uomini.
Semplicemente, in tutta onestà, credo ci siano più interessi sulle attività (formazione, consulenza, accompagnamento, mentoring, finanziamento, …) che incubatori, start-up e venture capitalist svolgono che non sui risultati e gli outpout di queste strutture. In altre parole c’è più attenzione sul cosa fanno che sul come e perché lo fanno. le attività di piuttosto che per i reali soci e imprenditori, appunto.
Il rischio è troppo sbilanciato sul giovane, il sistema rischia poco e, quando può, munge davvero fino alla fine idee, energie ed innovazioni.
Ai tempi della corsa all’oro, numeri alla mano, chi ha guadagnato di più non sono stati i cercatori d’oro ma le locande e i venditori di pale e strumentazione per scovare il prezioso minerale. Tu intanto paga, poi si vedrà.
Allora quando leggo dell’ennesimo corso di formazione per giovani startupper, il più delle volte gratuito (niente è gratuito: probabilmente sono fondi pubblici e quindi soldi della collettività), piuttosto che del concorso dove il montepremi è modesto ma la eco-mediatica è massiccia, allora penso (spero di sbagliarmi) che tutto questo hype giovi più a chi offre servizi per le start-up che non alle start-up stesse.
All’italiana, anche qui riusciamo a lavorare in ottica di campanile e non di sistema. Non riusciamo ad evitare sovrapposizioni (e relativi sprechi) di energie, iniziative, risorse private e pubbliche. Basti guardare ai calendari delle manifestazioni sul tema: è la sagra della start-up, del parco scientifico e/o dell’incubatore; ogni parrocchia si fa la propria e tutti se la vendono come la migliore.
Chiamiamo le cose con il loro nome. Il nordest è terra di imprenditori, piccoli magari, ma figure dove la famiglia e il lavoro sono la stessa cosa. Piaccia o no, a nessun imprenditore verrebbe in mente di creare un’Azienda per poi venderla o farla acquisire da un grande gruppo. E’ la logica del profitto a breve termine, schiacciato sulla trimestrale, contro un progetto di vita a lungo dove il tuo lavoro ti appartiene talmente tanto che arriva ad essere dimensione totalizzante della tua persona. Anche portandoti a gesti estremi come il suicidio per non esser stato in grado di pagare fornitori e dipendenti.
Tutti gli imprenditori sono stati startupper, solo che non lo sapevano. Facevano e basta. Forse il miracolo dei distretti del nord-est è avvenuto proprio per questo: un’etica del lavoro e del sacrificio che oggi, spesso, lascia il posto a grandi operazioni di visual merchandising. Mettersi in vetrina diventa più importante che lavorare con le mani e con la testa alta e aperta al mondo e alle innovazioni.