Il futuro dei social network tra fatturato e relazioniUn economista è invitato con tutta la famiglia a cena da amici. La serata si rivela un vero successo. La compagnia è piacevole. I figli giocano assieme e scoprono di avere molte affinità. Il cibo è raffinato. Il vino è sublime. A termine della serata l’economista smette di parlare e sembra guardare nel vuoto. L’amico, con cui si erano persi di vista ancora in gioventù, lo guarda e pensa: “strano, sembra stia contando”. Ma dimentica presto la cosa. Andati via, marito e moglie cominciano a sistemare. Sotto il piatto dell’economista trovano 200 euro, un biglietto di ringraziamento per la serata e un’attenta e ponderata analisi dei costi del servizio ricevuto. L’amico, ormai ex, prende con rabbia il telefono e gli intima di non farsi mai più vedere. La moglie dell’economista, vedendolo pallido in volto, gli chiede chi era e cosa era successo? L’economista racconta e spiega le sue ragioni alla moglie. Il giorno dopo si sveglia e anche la moglie se ne è andata con i figli.


Perché vi racconto questa storia? Perché mi ronza in testa da quando ho letto il post sul presunto decesso di Facebook. La trovate, meno romanzata, nell’introduzione di molti libri di economia della felicità. Lo scopo è evidenziare la distanza tra ciò che l’economia considera razionale fare e ciò che succede nella realtà. In economia, infatti, qualsiasi relazione è strumentale al raggiungimento di un qualche obiettivo e si fonda su un sistema di reciproche convenienze. Ma che c’entra questa storia con la morte di Facebook? Il problema è che Facebook e sui fratelli sono stati sino ad oggi definiti e percepiti come dei social network. La necessità o la volontà di piagare questi strumenti a esigenze di business pone dei problemi.

Li pone per Facebook, che deve trovare dei modi appropriati e poco invasivi per coniugare socialità e redditività, senza che la seconda spiazzi la prima determinando, appunto, la morte o meglio il suicidio del suo network (o piattaforma?). Da questo punto di vista, Facebook non è in una situazione molto diversa da quella di Google alcuni anni fa. Google aveva rapidamente raggiunto una posizione di leadership rispetto ad altri motori di ricerca perché garantiva, diversamente dai suoi competitor, che l’ordine della SERP non fosse in alcun modo dettato da logiche di profitto, ma dalla qualità dei contenuti, scelta dagli stessi utenti attraverso i propri link-in. La parte a pagamento era stata relegata al margine (per la precisione destro) della pagina. Questa scelta, benché premiante dal punto di vista del numero degli utenti, lo era meno dal lato della redditività. La necessità di sostenere anche la redditività ha obbligato Google ad introdurre la premium position. Il pregio della premium position, come ha dimostrato Francesca Tezza con la sua tesi di laurea, è che è del tutto trasparente a chi sa cosa sta cercando e ha un’elevata consapevolezza nell’uso dello strumento. È visibile ed è percepita come utile da chi ha deciso cosa acquistare o ha una minore consapevolezza nell’uso del mezzo. L’utenza di travaso, prima di arrivare sui social, è arrivata su Internet. Google ha trovato il modo di dare risposte diverse a qualità di utenti diversi. Lo stesso deve fare Facebook. Fornire ambienti e forme di socializzazione diverse a utenti diversi con un grado di sofisticazione diverso. A mio modo di vedere, comunque, ha già cominciato a farlo e su questo Google Plus forse è più avanti.

Ma a noi del destino di Facebook e dei suoi fratelli poco ci importa. Anzi, ci importa, ma hanno mezzi e persone per cavarsela da soli. Ci interessa di più il destino delle imprese-utente, meglio se piccole. È evidente, infatti, che anche le imprese che si affacciano su Facebook come parte di una più ampia strategia di brand building o meglio ancora di un nuovo modello di business non sono esenti dal problema di dover gestire il conflitto tra socialità e redditività, che è insito nella relazione che le lega a ciascun cliente potenziale o effettivo. Ma qui facciamo già il primo errore. Gestire, come mi ha insegnato Matteo in una mail  di commento alla preview di questo post, implica in sé un intento strategico, che poco ha a che fare con la volontà di costruire relazioni vere, basate sulla fiducia (quella non economicamente interessata e giustificata), la trasparenza e la reciprocità.  Quindi, sembra non esserci via d’uscita.

No! A mio parere c’è, anche se è stretta e richiede un ripensamento del perché fare impresa o meglio del per chi e come si fa impresa. Molte imprese, soprattutto medio-grandi, hanno di recente rivisto la propria mission, il proprio sistema di valori nel senso di una maggiore inclusività, una maggiore attenzione nei confronti del cliente, dei lavoratori e perfino dell’ambiente. Ma quante di queste affermazioni di valore si traducono in un cambiamento vero o, al contrario, in una semplice strategia di marketing, che tiene quindi conto dei costi ed i benefici della differenziazione. Per cambiare bisogna crederci veramente. La soddisfazione del cliente non è tale se è semplicemente funzionale a promuovere il riacquisto. Con questo non voglio dire che sia sbagliato. Meglio di niente! La soddisfazione diventa tale quando c’è perfetta coincidenza tra bisogni e desideri del cliente e bisogni e desideri dell’impresa. L’impresa diventa cliente di se stessa. Produce i propri beni e servizi prima per se stessa e poi per gli altri. I migliori album di una band generalmente sono quelli auto-prodotti, perché il primo consumatore dell’album è la band stessa, che si riflette in esso completamente. Il fatto che incontri i gusti degli altri è pura coincidenza, deriva da una piena e totale identificazione con l’esperienza che ha portato la band a produrre quell’album. Non è un caso che i primi fun di una band siano gli amici, degli amici e crescano secondo logiche tipicamente comunitarie. Il successo spesso porta all’esaurimento della vena creativa, ma questo è conseguenza del venir meno del rapporto intimo, prima con se stessi, e poi con la propria base di fan. Molti artisti scelgono di rimanere di nicchia e continuare a produrre per se stessi. Altri scelgono la strada del successo, remunerativa, ma, artisticamente parlando, più breve e forse meno soddisfacente. Oggi la Rete, i Social e quant’altro ci permettono di cercare questa intimità su di una scala maggiore. Il marketing si è inventato molti (brutti) termini per cercare di rappresentare queste opportunità: pro-sumer, co-creation e community. Ma se questi termini si traducono in semplice strategia, gestione ed organizzazione, i social sono si destinati alla morte. Ci vuole qualcos’altro per creare valore vero attraverso questi strumenti. Ma questo qualcosa, come direbbe Coelho, risiede in ciascun di voi. Nel perché profondo di essere e fare imprese. Se l’impresa non risponde ai bisogni intimi e più profondi di chi la fa, ovvero delle persone, non può che apparire finta e di plastica sul Web e sui social. È quella attenzione, quella spontaneità, quel non previsto che rende vera un’impresa sul web.

Ma anche il consumatore, se vogliamo continuarlo a chiamare così, non è estraneo a questo conflitto. La Rete e i social, come spesso si legge, hanno messo in mano un enorme potere al consumatore. Ma l’esercizio del potere, come si dice nei confronti dei politici, richiede anche responsabilità. Si dice, allo stesso modo, che la Rete è democratica. Ma anche la democrazia, essendo un bene comune, per essere esperito nella sua totalità richiede una responsabilità, che non è individuale, ma collettiva, perché è della rete e non dei suoi singoli nodi. La capacità di una rete di ricercare, esplorare, e creare/selezionare ciò che è buono e ciò che è cattivo dipende da quanto gli attori dedicano consapevolmente tempo gli uni agli altri. Non si tratta di altruismo! Non è altruismo perché sanno che solo così potranno ricevere dalla Rete quanto danno alla Rete. Molti, da questo punto vista, ritengono che i Social abbiano fatto molto. È vero, ci aiutano a mantenere delle relazioni anche con persone lontane, con cui abbiamo condiviso il terrore dell’esame di quinta elementare. E in questo racchiudono tutto il potenziale dei legami deboli: l’opportunità di scoprire qualcosa di interessante, di nuovo e totalmente distante da te. Ma per ottenere questo i Social hanno dovuto semplificare enormemente il linguaggio relazionale. Si pensi solo al significato dell’I’like di Facebook. Cosa significa? Ti piace cosa? Perché ti piace? È una atto dovuto o una scelta ponderata? I numeri sembrano deporre a favore dell’abuso e della non significatività del click. Io, da questo punto di vista, sono per un ritorno alla PAROLA e al RACCONTO inteso come l’andare lento della consapevolezza e della cultura. Perché, come ci dice Nanni Moretti, le parole sono importanti. È attraverso la nostra capacità di raccontarci, di analisi e di critica che contribuiamo collettivamente ad una Rete migliore a dei Social più Social, ma allo stesso tempo più utili, perché ci aiutano non solo a trovare ciò che vogliamo, ma ci aiutano a condividere la ricchezza del vivere sociale.

Una notte, nella solitudine della sua stanza, l’economista si è connesso a Facebook. Cercando nella rete dei suo “amici” trova il profilo della Moglie. Le invia una richiesta di amicizia. Lei accetta. La invita in un gruppo chiuso. E ricominciarono a PARLARE….