Per un venerdì dedicato alla cultura la sezione altri autori ospita una riflessione di Federico Mainardi appassionato di storia delle idee e storia dell’arte, vive in prevalenza nei mondi di carta, dai quali, ogni tanto, torna per portarci spunti, riflessioni, provocazioni dalle discipline che ama…

La mia amica trascura prolungatamente la sua tazza di tè per riferirmi la triste convinzione, espressa con sicurezza dai suoi commensali durante una cena, che al giorno d’oggi la cultura non interessi più a nessuno.

Ci troviamo in un caffè del pieno centro economico milanese: sopra di noi pulsa il traffico degli affari di managers e imprenditori. Davvero la cultura non ha motivi di interesse e utilità per costoro?


Nel complesso mondo delle organizzazioni risulta sempre più strategica quell’abilità che Paul Watzlawick chiama visione multipla: la capacità di intendere un oggetto di analisi (che si tratti di dato, situazione o rete di rapporti) da differenti punti di vista. Tematica chiave dei corsi di formazione su creatività e problem solving, la capacità di cogliere la pluralità degli aspetti compresenti di un fenomeno non sembra appartenere all’immediato senso comune: risulta frutto di sforzo sistematico piuttosto che forma mentis acquisita. Eppure, già a partire dal secondo Ottocento e nei primi anni del Novecento una serie di fenomeni culturali europei ha proposto insistentemente la sfida di un paradigma della molteplicità di prospettive, secondo un generale riorientamento pluralistico che guardava al reale nei termini di una varietà di aspetti differenti in compresenza.

Forse la cultura – in questo caso la storia delle idee – ha più ragioni di interesse di quanto si creda per chi, quotidianamente, si confronta con le problematiche ed i bisogni dei contesti organizzativi: tali motivi di rilevanza si qualificano anzitutto in termini di atteggiamento e disposizione mentale.

Tra la Fin de siècle ed i primi del Novecento sono soprattutto il tempo e lo spazio ad essere pluralizzati, divenendo, da kantiane categorie unitarie dell’esperienza, fenomeni poliedrici e variabili a seconda del sistema di riferimento cui sono rapportati. Romanzieri, filosofi, psicologi e fisici indagarono la creazione individuale di tante forme di tempo differenti quanti sono gli stili di vita, gli impianti concettuali ed i sistemi sociali. Marcel Proust esplorò il tempo personale del narratore della Recherche, completamente diverso dal tempo pubblico omogeneo; Henri Bergson distinse tra tempo soggettivo-psicologico (durée) e tempo oggettivo-misurabile (Joyce ne diede una brillante ed ardua trasposizione nell’Ulysses); Edmund Husserl sfaccettò la nozione di presente arricchendola di una gamma di ritenzioni del passato e protezioni verso il futuro; Karl Jaspers delineò i modi differenti di percepire il tempo e lo spazio nella malattia mentale; Albert Einstein chiarì come la misurazione delle coordinate temporali sia relativa ad un sistema di riferimento. Molti intellettuali giunsero alla conclusione che il tempo reale coincidesse con la molteplicità dei tempi personali e relativi, mentre il tempo pubblico uniforme non era che astrazione e formalizzazione speculativa. Il mondo dell’arte espresse perfettamente la complessità temporale del nuovo secolo: i celebri orologi che si liquefanno, dipinti da Salvador Dalì, sancirono il crollo dell’idea del tempo assoluto in favore della moltiplicazione delle dimensioni temporali possibili, mentre lo stile cubista permise di esperire in un unico istante molte vedute successive di uno stesso oggetto.

Le geometrie non euclidee di Nikolay Lobacevskij e Bernhard Riemann, risalenti metà Ottocento, mostrarono come anche lo spazio fosse molteplice e non potesse più essere pensato secondo le categorie di unità ed uniformità. Nella fisica einsteiniana la lunghezza è conseguenza prospettica dell’atto di misurazione da un sistema di riferimento in movimento; Émile Durkheim sviluppò argomentazioni sulla relatività sociale dello spazio; Oswald Spengler sostenne che culture differenti esprimono simbolicamente concezioni spaziali diverse; Jakob von Uexküll asserì che il senso dello spazio nel mondo animale varia col differire della fisiologia degli organismi.

L’arte pittorica fornì un contributo imprescindibile all’irruzione del paradigma della pluralità dei punti di vista. Cézanne per primo introdusse prospettive molteplici e contemporanee dello stesso oggetto, ma fu il Cubismo analitico a smantellare definitivamente l’uniforme spazio prospettico, egemonico a partire dal Rinascimento, e a ricostruire gli oggetti in una moltitudine di visioni simultanee dei loro tanti aspetti.

Ora, se è vero che la rappresentazione dello spazio nell’arte riflette le categorie concettuali fondamentali di una cultura, la visione multipla appartiene compiutamente alla cultura occidentale da più di un centinaio d’anni. Se è vero che la cultura è sia motore, sia specchio dei mutamenti del modo di guardare alla realtà, dai primordi della contemporaneità l’esponenziale crescita tecnica ed economica, oggi sotto gli occhi di tutti, si accompagna all’altrettanto vertiginosa messa a punto di un paradigma che trova il suo tratto saliente nella capacità di concepire la pluralità simultanea.

Come ho tentato di mostrare, peraltro senza pretese di esaustività, la capacità di visione multipla è una risorsa già inscritta nella storia della cultura occidentale: a parere di chi scrive, una maggior attenzione alla storia della cultura potrebbe favorirne l’introiezione e l’appropriazione nei termini di immediata disposizione mentale, spendibile nella prassi lavorativa. Solo la frequentazione dell’universo umanistico, infatti, plasma la capacità di cogliere e introiettare le istanze di flessibilità indispensabili per orientarsi nei bisogni della contemporaneità; solo la frequentazione dell’universo umanistico rende disponibile quella forma mentis poliedrica che la dimensione organizzativa tanto abbisogna.

Dunque, la cultura non interessa più a nessuno?