18 settembre 2012. Il countdown è iniziato alle ore 19. Devo aspettare fino alle 21. Un amico qualche giorno prima mi ha detto: “ma dai, non sarà niente di interessante. È un format, uguale a quello americano”. Non lo ascolto neanche, mi aspetto grandi cose. La promessa è un vero lavoro! E poi lui, il Flavio nazionale, in versione coach. Impossibile perderselo, incredibile solo a pensarlo. Eppure qualche skill deve pur possederla veramente – io non ci avrei mai scommesso – e invece eccolo lì nel posto che è di Donald Trump negli USA.
Non vorrei dilungarmi troppo sul conduttore, anche se mi sembra che parte dello show sia proprio lui, con le sue frasi concise e un po’ grezze, le sue indicazioni perentorie, le sue espressioni fasulle, e quel gesto finale, “sei fuori!”, a metà strada tra il teatrale e il professore universitario che con disprezzo boccia lo studente. Va bene, adesso basta con Briatore, passiamo al programma vero e proprio, che merita non minore ironia del suo conduttore. Eppure le basi c’erano tutte: finalmente un “reality” in cui i concorrenti non sono dei perfetti idioti, analfabeti e scurrili, ma sedici giovani manager allenati alla competizione. Un “reality” che affronta un problema reale, anzi IL problema dei nostri giorni: trovare un lavoro, interessante, stabile e ben remunerato (il promo dichiara subito un compenso a sei cifre). Insomma uno show si, ma fatto di contenuti, terminologie, azioni e reazioni da cui potenzialmente trarre un insegnamento.
Tanto è vero che la prima puntata lancia le regole del Boss, e il dubbio si insinua: 1) Mastica filo spinato. Ma come non eravamo manager? Adesso siamo in trincea? E sulla lingua ti spunta una baionetta. 2) Non devi arrenderti. E qui ci siamo, la regola è condivisibile. Salvo che uno non si accorga di aver fatto un errore, nel qual caso è meglio che si arrenda. E poi una domanda non può non nascere, ma se non ti arrendi tu, si arrendono gli altri? Mi vengono in mente i lavavetri agli angoli delle strade. 3) Devi avere fame. Ecco qui torna prepotentemente Steve Jobs, ma questo avere fame mi sa più di rampanti anni ottanta, di qualcosa di greve. Cerco una compensazione meglio dire assetati, anche perché negli ultimi mesi non si fa che parlare di Tisanoreica e Dieta Dukan, e i loro inventori mai vorrebbero vedere degli affamati. 4) Tu sei il coach del team. Anche questo è accettabile, sempre che uno abbia un team e che questo non ti morda per fame. 5) Il lavoro è una cosa seria. Qui proprio non ci siamo. Non che non sia vero, ma sentire Briatore che dice “se ti stai divertendo, vuol dire che probabilmente non stai lavorando bene”, proprio non mi convince. Al Billionaire erano tutti seri? E poi il coinvolgimento, la passione dove le mettiamo? 6) Il successo è la miglior vendetta. Qui mi viene in mente la matrigna cattiva di Biancaneve, che era mille volte più figa della figliastra, ma perdeva tutto in quel maledetto specchio: non dovremmo ambire al successo per realizzare noi stessi, per costruire qualcosa di utile piuttosto che per far morire di invidia gli altri? 7) Il business non dorme mai. Vero. 8) Non devi sottovalutarti mai. Ma neanche sopravvalutarti. Ora, noi umani ci sottovalutiamo e sopravvalutiamo spesso e volentieri – e ve lo dice un’esperta – dovremmo quindi diventare disumani? 9) Niente scuse. Mai. Più che una regola, un ordine! 10) Il boss ha sempre ragione. “Anche quando ha torto” dice Briatore, ecco perché tutti vogliono diventare un boss.
Date le regole, si passa all’azione: la prima puntata vede i nostri – che per altro da giovani manager si sono subito trasformati in burattini/tronisti sedotti dal proprio ego – alle prese con il business che non dorme mai, quello del pesce fresco. Ore 4:00, via al mercato. Ad eseguire un lavoro in cui le competenze professionali si dimostrano essenziali: comprare al prezzo più basso e vendere al prezzo più alto il pesce. Ed eccola qui, svelata subito la vera, concreta, determinante competenza per avere successo: la furbizia, la scaltrezza. Meno male che ce lo dicono subito, così evitiamo malintesi e non ci facciamo illusioni. E smettiamo anche subito di studiare perché pare che serva a poco. Guarda un po’ anche la puntata due tratta di compra-vendita. Inclassificabile. Passiamo alla terza: il tema è il mercato del giocatolo, il cliente i bambini. Forse una puntata interessante, l’obbiettivo è ideare un gioco e la relativa campagna pubblicitaria. Si cita anche Pascoli. I due gruppi vengono messi nella condizione di fare un percorso creativo, ma senza una guida competente che li stimoli, come se la creatività dovesse sgorgare naturalmente. I due brainstorming però sono interessanti, anche se si sottovaluta l’importanza di un coach esperto in conduzione di gruppi creativi. In ogni caso, il prodotto nasce, viene costruita la campagna e infine nominato il vincitore ma che dire del premio? Chi vince va al parco divertimenti, chi perde va al bar. Il bar dei perdenti, istruttivo. Mi viene in mente una canzone di Vinicio Capossela, “il bar non porta i ricordi ma i ricordi portano inevitabilmente al bar”. Quarta sfida, si passa all’abbigliamento nel più grande outlet d’Europa, il Franciacorta Village, compito allestire uno stand; quinta sfida, mercato dell’elettrodomestico, prettamente maschile, il rasoio. Ma il capolavoro – almeno per me – arriva alla sesta, ed ultima per ora trasmessa, puntata. Parliamo di arte, i nostri devono organizzare una mostra e vendere i quadri. Ma non in un luogo qualsiasi, addirittura alla Reggia di Caserta. Ci stava una bella sdoganatura, l’arte è un prodotto a tutti gli effetti, la scelta degli artisti e delle opere si effettua su una base di potenzialità commerciale e al diavolo il valore artistico. Poi sull’organizzazione, la presentazione, la vendita non si può dire nulla. Sempre di venditori parliamo. Ora ci aspettano le ultime quattro puntate, con i restanti sei concorrenti. Briatore lo conferma, “chi lavora con me deve avere due palle così”, nel senso che te le fa venire, o al massimo… te le vende.