La lunga querelle estiva, che ha coinvolto Apple e Samsung, dimostra, se mai ce ne fosse stato ancora bisogno, l’inefficienza del sistema brevettuale nel coniugare benefici privati e collettivi dell’innovazione.
Ricapitoliamo brevemente i termini del problema. L’innovazione, come forma di conoscenza applicata, è per sua natura un bene comune, ovvero gode di due proprietà.
- È non rivale. La conoscenza non si consuma con l’uso (anzi!). Per cui, non c’è rivalità nell’accesso , una volta che questa è stata prodotta.
- È non esclusiva. Non è facile impedire l’accesso a chi non ha “pagato il biglietto”. Il combinarsi di questi due fattori produce una situazione di (apparente) stallo. Nessuno ha l’incentivo a produrre un bene da cui tutti ne beneficerebbero, ma che nessuno è disposto a pagare.
La soluzione che si è adottata per fornire agli imprenditori incentivi ad innovare è istituire il diritto di proprietà temporaneo sulle innovazioni prodotte. Questo consente loro di beneficiare di rendite monopolistiche per un periodo dato, tali da ripagare l’investimento cognitivo fatto. Cosi facendo, però, si attribuisce un prezzo a un bene che, dal punto di vista economico, non ne ha. Per cui se ne riduce la potenziale diffusione e evoluzione.
Per cui, quando Samsung afferma che la sentenza a favore di Apple implica maggiori costi a carico dei consumatori, ci dice che, se quella conoscenza fosse rimasta liberamente disponibile, il consumatore avrebbe beneficiato in termini di maggiori opportunità di scelta e innovazioni future.
Quando Apple afferma l’importanza di tutelare i diritti di proprietà intellettuale per il progresso stesso della società, dichiara che in assenza di tutele nessuno avrebbe investito nella produzione di quella conoscenze. Così raccontato il dilemma sembra non aver altra soluzione che quella sino ad oggi adottata.
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Il punto è che parte della morale di una storia sta in come la si racconta. Nello specifico è necessario a fare alcuni distinguo. Innazitutto, bisogna fare luce su che cosa si protegge. Esiste una lunga diatriba, che è sfociata nella contrapposizione tra Europa e USA, circa la brevettabilità del software. Ma non voglio entrare nei tecnicismi di questo dibattitto. Mi limito ad osservare che ho seri dubbi circa l’applicabilità del brevetto, come sembra essere nel caso in oggetto, ai movimenti di una mano. Il genio di Steve Jobs ha poco a che fare con lo sviluppo di queste funzionalità. La selezione naturale ha avuto un ruolo fondamentale nel loro sviluppo. Lo stesso vale, a mio parere, anche nel caso delle scelte ergonomiche circa gli angoli del tablet. Io capisco, come sottolineato più volte nella sua bibliografia, che Steve Jobs fosse affascinato dal potenziale insito nei movimenti di una mano. Per cui ne abbia saputo, più di altri e prima di altri, coglierne e sfruttarne il potenziale. Ma questo non gli da alcuni diritto di affermare un diritto di proprietà su una capacità che non ha creato.
Ciò detto, non credo che questo sia il problema maggiore. Questo, al contrario, sta nel non detto di questo racconto, ovvero i presupposti che lo rendono credibile ai molti rendendoli ciechi a soluzioni alternative percorribili.
Per fare emergere questo non detto farò riferimento all’esempio del pascolo comune, che è spesso utilizzato nei corsi di microeconomia per spiegare l’efficienza della proprietà. Secondo questo esempio, in assenza di diritti di proprietà, il pascolo sarebbe presto ridotto a deserto per l’opportunismo degli allevatori nello sfruttare una risorsa di cui non ne sostengono direttamente i costi. La proprietà, in questo senso, serve a internalizzare le esternalità: obbligare gli allevatori a tenere conto del costo di questa risorsa per promuoverne un uso efficiente. Non esistono altre soluzioni possibili perché gli allevatori, essendo per loro stessa natura opportunisti, non sono in grado di concordare tra loro delle regole comuni per l’uso del pascolo, che tengano conto anche dei costi di riproduzione dello stesso, e comportarsi di conseguenza.
I lavori di del premio Nobel Elinor Ostrom dimostrano, al contrario, che molto spesso le comunità sono capaci di auto-regolarsi nella gestione delle risorse comuni, senza il bisogno dell’intervento esterno o la definizione di diritti di proprietà. L’identificazione come appartenenti ad una stessa comunità ed ad uno stesso sistema di regole, la reputazione e quant’altro consente di mettere in moto forme di coordinamento e controllo sociale altrimenti non disponibili. Inoltre, le comunità sembrano essere meglio in grado di accumulare e gestire la conoscenza legata alla gestione di una risorsa comune perché essa diviene parte dell’esperienza comune della comunità.
La stessa Ostrom, insieme a Hess, ha curato un volume pubblicato in Italia da Mondadori dal titolo “La conoscenza come bene comune”. Questo libro mette in guardia contro l’eccessivo orientamento alla privatizzazione dei saperi e guarda alle molte esperienze di comunità in Rete come forma alternativa di governance della conoscenza. L’esempio della comunità di sviluppo OS, il caso wikipedia e quant’altro dimostrano che sono possibili forme di co-produzione basate su forme di proprietà condivisa.
Io ho scritto da che parte sto. E voi?