Da quando il web è diventato un canale da considerare al pari degli altri mezzi di comunicazione – e si parla davvero di una vita fa – ci si è messi a studiarne i numeri, fare statistiche, prevederne i trend.

Con il vantaggio che tutto è più tracciabile e il ritorno sugli investimenti più misurabile. L’adv sui motori di ricerca si vendeva a click, i banner a impression, i database a numero di iscritti. Analisi puntuali.

Con il web 2.0, caratterizzato dai social network, sono le relazioni – più che le azioni – a fare da padrone.

Nel web 1.0 si cliccava e basta. E questa era l’azione misurabile. Oggi si scrive, si commenta, si twitta, si posta. E quindi si crea, si interviene, si risponde: ci si relaziona.

Le relazioni sono forme di interazione complesse e anche la loro misurazione dà adito a qualche dubbio.

È poi anche vero che relazionarsi, o interagire in modo complesso, è dispendioso, in termini di tempo e di energie. Scrivere e commentare ci impegna di più di un facile click.

Quindi Facebook si inventa il bottone “like”, Twitter il “retweet”, Pinterest il “pin”.

La tendenza diventa provare a semplificare l’interazione complessa. E quindi anche a riportare la relazione (interazione complessa) sul piano dell’azione (interazione semplificata).

Lo stesso vale per quando si fanno i conti: sembra che su Facebook sia importante contare il numero degli amici che hai e su Twitter i tuoi follower. Strano visto che entrambi i social network nascono con l’obiettivo di condividere e di potenziare il valore dei legami deboli (ne sono un esempio persone che incontriamo sul nostro cammino ma a cui non faremmo mai una chiamata, e che su Facebook invece divantano facilmente nostri amici, o almeno contatti). Facebook e Twitter dovrebbero essere incubatori di relazioni e non contatori di fan.

Su Facebook si possono caricare status, foto, creare eventi, partecipare ad eventi, diventare fan, condividere link, commentare i post di amici e anche di non amici.

Per le aziende diventa un importante strumento per avvicinare le persone al brand, per incuriosire chi non ti conosce, per premiare chi ti segue.

Allo stesso modo Twitter ha senso se utilizzato per seguire chi ci interessa (e vale per le persone e per le aziende), ed è efficace non solo se qualcuno ci ascolta, ma se interviene, commenta, risponde e retwitta.

È recente la notizia che molte aziende acquistino followers, e che spesso (si parla in alcuni casi del 45% del totale) questi followers siano addirittura dei fake , quindi falsi profili creati solo per rimpolpare il database. La stessa notizia, è uscita oggi relativamente al profilo twitter di Beppe Grillo, una analisi empirica che dimostra come più del 50% dei sui followers siano falsi.

La ricerca valutava alcuni elementi/azioni di un campione di profili follower di Beppe Grillo come umani o bot, registrando un altissima percentuale di questi ultimi.

Senza entrare nel merito della questione e a prescindere dalla veridicità e empiricità dei dati ottenuti (si è subito questionato il metodo d’indagine ), è interessante capire come fare i conti quando si tratta di social.

Sembra però che dove c’è necessità di usare i numeri per mostrare la forza in termini di consenso, si ricorra a mezzi e indicatori forse poco adatti a valutare la complessità di un ambiente complesso come quello del web sociale. E che costruirsi una buona reputation online va ben oltre un paio di grafici.

Internet, e in particolare il web 2.0, nonostante la tanto sbandierata propensione alla misurazione, non è proprio una scienza esatta e se i numeri continuano ad avere una logica, non è detto che dietro abbiano anche una testa pensante.