Gli atomi sono i nuovi bit. Questo dice Chris Anderson nel numero di Novembre di Wired Italia. I nostri prodotti sono sempre più composti di un materiale malleabile ed impalpabile: i bit. I bit possono essere facilmente trasferiti in Rete e modificati da chiunque mediante strumenti informatici di facile uso e liberamente disponibili. I bit possono essere trasformati in materia attraverso macchine flessibili dal costo ridotto, di facile uso ed installabili nei garage sotto casa. La trasformazione degli atomi in bit è alla base del fenomeno dei cosiddetti Makers: creativi che auto-producono le loro opere. Inoltre, essa favorisce l’innescarsi del fenomeno della coda lunga anche per i beni materiali: una parte crescente del valore di un mercato risiede in prodotti che sono venduti anche in poche copie perché il loro costo di produzione occupa un peso sempre più residuale.
L’immagine del garage, spesso associata ai Makers, non può che richiamare la Silicon Valley degli anni ’60 e ‘70. Un contesto creativo che non solo ha posto le basi per il nascere della rivoluzione digitale, ma è tuttora trainante nella sua evoluzione. Le menti più brillanti ancora vanno nella Silicon Valley alla ricerca di fortuna. o meglio alla ricerca di Venture Capitalist che finanzino le loro idee imprenditoriali.
L’immagine del garage non può che ricordarci l’Italia degli anni ’60. I nostri nonni, genitori e zii che nel Garage dietro casa producevano prodotti e parti di – camice, occhiali, biciclette, divani, macchine – per conto di altre aziende, che assemblavano e commercializzavano questi prodotti nel mondo. Anche il nostro garage degli anni ’60 è stato l’inizio di una rivoluzione. Il mito della piccola e media impresa artigiana, del sistemi di produzione diffusa e del Made in Italy. Si, perché il crowdsourcing e il modello di innovazione open source, non me ne voglia Richard Stallman, l’abbiamo inventato noi. I nostri vecchi hanno da sempre condiviso i loro saperi in comunità di co-produttori ed utilizzatori.
I due garage non sono mai stati così vicini come oggi. Si stanno sempre più fondendo nella trasformazione degli atomi in bit e dei bit in atomi. Questo è motivo di rinnovato entusiasmo circa il destino del nostro sistema produttivo. La rivoluzione dei makers può essere una rivoluzione targata anche Made in Italy? Lo può essere, ma ad una condizione. Non dobbiamo pensare che la semplice disponibilità di macchine che permettono di abbattere i tempi ed i costi di prototipazione sia sufficiente a rilanciare il lavoro artigiano. L’artigiano non è più quello di una volta. Quello del semplice saper fare. I nuovi artigiani – i maker – sanno gestire i nuovi linguaggi informatici e cooperare in Rete con la R maiuscola. Le nostre imprese artigiane, se vogliono valorizzare la propria storia, devono investire nello sviluppo di queste competenze, che storicamente hanno trovato scarso riscontro nel nostro territorio. Lo devono fare investendo sui giovani, che essendo nativi digitali sono più a loro agio in questo mondo. Lo devono fare investendo in formazione, per costruire le competenze interne necessarie a gestire questi processi. Ma soprattutto lo devono fare imparando a cooperare all’interno di progetti che si propongono di aprire le nostre imprese e i nostri territori a questi mondi, che sino ad oggi sono rimasti troppo lontani.