Dopo aver tessuto le lodi delle comunità di consumatori e dei suoi innumerevoli pregi è giunto il momento di andare a scavare nel torbido e citare quelli che sono stati esempi non proprio felici di prodotti, o meglio marchi e di conseguenza aziende, che non hanno di certo goduto dei pregi della comunità.

L’esempio di Apple viene citato su i testi scolastici come esempio di come un brand può aumentare in maniera esponenziale il proprio valore grazie all’interazione dei partecipanti nella comunità di consumatori e all’immagine che questo agglomerato da di se nell’intero mercato andando ad influenzare il comportamento, a livello micro, del singolo utilizzatore.

Grazie anche alle strategie che coinvolgevano la brand community specifica il valore del marchio di Cupertino ha raggiunto il livello record di quasi 320 miliardi di dollari superando nella classifica mondiali colossi del calibro di IBM, McDonald, Google, Coca Cola e dell’eterna rivale Microsoft attraverso anche la condivisione dei valori insiti nel marchio della mela prima ancora che nei prodotti fisici.

In analoghe situazioni la cattiva gestione delle comunità di consumatori e la non curanza per quelle che potrebbero essere le influenze di questi soggetti su i comportamenti di consumo di chi poi compone il mercato può rilevarsi dirompente per quella che è l’immagine dell’azienda e, spesso, per il proprio valore.

Uno di questi esempi, per molti di coloro che appartengono alla mia generazione o a quella precedente, è stato uno status symbol dell’età dell’adolescenza. Parliamo di scarpe, e più principalmente di stivali.

Tra i diversi ricordi che ho sicuramente c’è il giorno in cui sono potuto entrare nel negozio del centro che all’epoca andava più di moda (altro caso, positivo, di influenza sul valore del marchio da parte della comunità di influenzatori), fermare il commesso e con voce squillante dire “Mi fa provare un paio di Dr. Martens per favore?”. E’ inultile nemmeno sottolineare che uscii da quel negozio con gli stivali ai piedi e le scarpe con cui ci ero arrivato dentro la scatola.

E’ curioso come la storia che segue io l’abbia scoperta solamente qualche tempo fa a circa 20 anni di distanza.

Ecco quella dei Dr. Martens è un esempio di come il collegamento tra prodotto, brand e comunità di consumatori, se non gestita a dovere può provocare problematiche dirompenti all’azienda anche se questa ha dimensioni importanti.

Questa scena è ambientata più o meno a inizio degli anni novanta. Trent’anni prima, agli inizi degli anni 60, questi stivali vedono l’alba del loro splendore quando i mod, persone appartenenti alla subcultura giovanile che si sviluppò a Londra nei tardi anni cinquanta e raggiunse il picco di popolarità nel decennio successivo, adottano i Dr. Martens 1460 dopo che Pete Townshend degli Who li elegge a sua calzatura favorita.

Nel 1964 la cultura mod comincia a suddividersi in varie correnti tra cui gli hard mod e gli skinhead che per primi faranno di questa particolare scarpa un simbolo identificativo della loro cultura.

Si tratta, infatti, di una subcultura con connotazioni estetiche, iconografiche ed ideologiche contraddistinte da generi musicali, capi d’abbigliamento, canoni comportamentali e beni di consumo peculiari.

I Dr. Martens diventano la componente più importante dell’abbigliamento degli appartenenti alla sottocultura skinhead che rappresenta il simbolo della loro appartenenza proletaria, in contrapposizione a quella dei mod borghesi e benestanti che presero la via del movimento hippy.

Il comportamento di alcune bande di skinhead inglesi, caratterizzati da atteggiamenti violenti e da frequenti scontri, crearo una distorsione dell’immagine della sottocultura che si riversò a cascata sull’immagine del prodotto e del marchio che veniva identificato come l’anfibio degli skins, gettando discredito sulla R. Griggs & Co, l’azienda che ne deteneva la proprietà.

Da quel momento e fino al 2003, anno in cui il calo delle vendite dei Dr. Martens obbliga l’azienda a cessare la produzione nel Regno Unito e a trasferirla nel sud est asiatico, con l’esclusione degli anni della mia adolescenza in cui un rigurgito della cultura underground ha fatto si che quelle generazioni i famosi “8 buchi” fossero un must, l’abbinamento nell’immaginario collettivo degli stivali con l’immagine distorta della cultura skinhead ha portato ad una perdita costante di valore per il marchio.

Di esempi come questi ce ne sono altri e in alcuni casi gli errori iniziali di cattiva gestione delle possibili associazioni sbagliate tra l’immagine degli appartenenti alla comunità con quella diretta del marchio è stata compensata in parte dalla azienda e in parte dalla brand community stessa.

Il punto in comune, e spesso di svolta, tra un caso di interazione positiva tra una comunità di consumatori e l’azienda detentrice del marchio e un caso negativo come quello descritto é la presenza attiva dell’azienda.

Se è vero che le community spesso rivendicano la loro indipendenza dalle strutture societarie è altrettanto vero che le aziende devono rimanere vigili sull’evoluzione del rapporto oltre che per rimanere “informate sui fatti” anche per poter affiancare e, spesso, agevolarne l’evoluzione.

Ora scusate ma vado ad ammirare i miei vecchi stivali. Mica li ho rottamati, sono ancora li a perenne ricordo!!!