Da quando ho cominciato ad appassionarmi, fino ad occuparmene in maniera professionale, di innovazione e scambio di conoscenza all’interno delle comunità termini come Open Innovation, Open Source, Lead User e nomi come Von Hippel e Chesbrough sono diventati di uso comune per non dire quotidiano.
È piuttosto facile comprendere come, anche a causa di una sorta di deformazione mentale, riponga in questi nuovi cicli innovativi una totale fiducia e riconosca del credito (magari spesso ingiustificato) su questi “processi comunitari”.
Opera di Tobia Ravà tratta dalla mostra “Computi inauditi” – Galleria d’arte l’Occhio – Dorsoduro 181 – Venezia
Contestualizzando attraverso un esempio concreto, Wikipedia è forse il modello per antonomasia della realizzazione di un prodotto di ottima qualità (tralasciamo la diatriba sulla veridicità delle definizioni che qui è del tutto trascurabile) attraverso lo scambio di conoscenza comunitario.
Stiamo parlando una comunità di 400.000 potenziali editor con 24,3 milioni di pagine totali esistenti e che viene utilizzata regolarmente dalla maggior parte degli utenti con un accesso a internet (si parla di 2.500 pagine richiesta al secondo e una percentuale vicina al 97% delle pagine presenti tra le top ten di Google).
L’esempio di Wikipedia non è sicuramente preso a caso. L’accesso diffuso alla rete e la progressiva importanza dei Social Network hanno portato a galla una serie di questioni che stanno profondamente modificando non solo il mercato globale della conoscenza ma, spesso, il paesaggio sociale.
Peppino Ortoleva, in un articolo pubblicato su Nova24, porta alla luce una riflessione che se interpretata sotto un ottica pessimista può provocare forti smottamenti nel tessuto culturale globale.
Questa grande macchina [la rete], largamente esaltata come il massimo strumento di circolazione della conoscenza, o addirittura di “intelligenza collettiva” sta rendendo obsoleto il ruolo di chi per mestiere produce cultura? … Ma può davvero una “società della conoscenza”, in nome magari della democrazia dell’accesso, fare a meno di chi alla produzione e circolazione della conoscenza si dedica per vocazione e per professione?
Parafrasando queste domande da una applicazione sociologico-culturale ad una prettamente aziendalistica, può l’open innovation, attraverso le comunità di innovatori, soppiantare i reparti di ricerca&sviluppo dal loro ruolo fondamentale di apportatori di migliorie su i prodotti? Un’azienda manifatturiera (probabilmente nel campo dei prodotti immateriali come il software questi processi sono facilitati dalle caratteristiche intrinseche) può ridurre a “zero” i costi di innovazione sostituendo con le comunità di consumatori i reparti R&D?
La risposta probabilmente è il più classico dei NI. Le ricerche degli ultimi vent’anni dimostrano come, guidati da necessità nella soddisfazione di bisogni specifici, i consumatori che partecipano attivamente alla vita comunitario tendono ad individuare e studiare modifiche tecniche ai prodotti da loro utilizzati apportando cambiamenti, spesso empirici, alla struttura del prodotto.
I problemi principali di questa “creazione di conoscenza comunitaria” sono da ricercare in due macro categorie: Il linguaggio usato dai soggetti innovatori delle comunità e la realizzabilità su ampia scala delle modifiche. Ecco, quindi, che l’esistenza di reparti di R&D professionali sono indispensabili all’interno delle aziende per comunicare con i centri produttivi in modo da creare una codifica condivisa in ambiente aziendale della conoscenza e indirizzare il lavoro di introduzione reale delle novità.
Le lunghe battaglie a favore del diritto d’autore da una parte e a favore della democrazia dell’accesso e della creazione della conoscenza dall’altro rischiano, a torto o a ragione, di annacquare e offuscare questi, preziosi, processi di creazione di nuove competenze.